Mi piace camminare. Lungo le strade e i vicoli della mia città dai mille volti. Girare per Napoli è come attraversare un carosello i cui opposti si attraggono.

Freddo e caldo, bianco e nero, ricco e povero, bellezza e fatiscenza, sacro e profano. Tutti mescolati e senza alcuna logica. E come ho avuto occasione di scrivere in uno dei miei libri, ogni via, ogni porta, conducono ad un mondo nascosto fatto di meraviglie.

È qualcosa di straordinario. Perché in perfetto stile “doppio”, sotto il livello della strada c’è un’altra città, sotterranea. Lo sappiamo tutti ma non ne parliamo con facilità.

Mi piace camminare. Mi piace guardare le persone che incrocio per la strada, nell’autobus, nella metro. Spesso mi soffermo sui volti, sugli sguardi, sulle rughe. Come solchi profondi e sapienti mi raccontano storie, ambienti, colori e immagini. Sono tutte pellicole di vecchi film. E poi sposto l’attenzione sulle mani, raccolte, strette, intirizzite, giunte, sembrano che tutti e in qualche modo siano perennemente in preghiera. Lo faccio tutte le volte.

 

C’è una vecchia seduta nella metropolitana, sepolta dalle borse che porta con sé. Mi riscalda il cuore per quanto sia piccina, sembra proprio una bambina con quei capelli zucchero filato ed i suoi occhi pieni di mare. Ha mani piccole, raccolte sul grembo, timide colombe stanche che non sanno più spiccare il volo. E ha guance arrossate dal sole. La pelle di seta, nonostante le pieghe e le rughe.

Il dondolio del treno la riporta indietro nel tempo, alla sua infanzia, a quando a piedi nudi rincorreva il fratellino con due denti penzolanti dalla bocca larga, quando il cemento ancora non aveva divorato la campagna e c’erano ancora usignoli. Si ricorda di quell’albero di nespole dietro la casa di suo padre, quello tanto caro a sua nonna, perchè era l’unico albero che non dava frutti. Prima della seconda grande guerra, un soldato straniero aveva dormito all’ombra di quel verde. Da allora, con grande sorpresa di tutti, l’albero di nespole aveva fruttato ogni stagione, ed ogni volta che faceva frutti sua nonna piangeva e baciava il tronco grata. L’albero di nespole era come una persona di famiglia. Tutti lo rispettavano. Perchè si era distinto dagli agli altri.

 Un vecchio carretto in legno cigola al vento primaverile ed un attimo dopo è donna. Sua madre ora la guarda, sembra fiera di lei. Si sposa e ha cinque figli, lavora la terra che gli ha lasciato il padre con il marito, anche lui contadino. E due dei suoi cinque figli sono morti ed ora, lei lo sa, sono con gli angeli. Ma anche nel suo cuore.

Com’è cambiato il mondo. Sembrano tutti impazziti e non si capisce chi è donna e chi è uomo. Non si capisce ieri, oggi e domani. I ragazzi mi sembrano zombie, e la terra è morta, l’hanno avvelenata. Puzza.  Prima no. Prima profumava.  Non ci sono più alberi ed è difficile ritrovare la strada di casa.

Cos’è poi la vita? Ai miei tempi era più difficile ma più semplice. E il senso della vita, poi non l’ho mica trovato. Aveva ragione mio padre quando diceva che non esiste poi un senso se non quello che c’è, e indipendentemente dal fatto se lo capiamo o no. Mio padre sì che capiva. Ci capiva tutti.

Non riesco a sentire l’ultima parte dei suoi pensieri, interrotti bruscamente dalla fermata della metro. Con forza sovrumana, si carica le sue tante borse sulle spalle e scende dal treno. Le porte si chiudono, ho un brivido e una lacrima scende dai miei occhi senza che io possa rendermene conto.  

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