Un’emozione tira l’altra

Sarebbe troppo complicato per me, ora, raccontare la storia di mio padre. Meriterebbe un libro intero per quanto è avvincente e appassionata. Voglio, invece, parlare di quello che ho provato durante una delle esperienze ultime e più formative della mia esistenza in cui mi sono ritrovata, a seguito dell’incidente di mio padre che, a causa di una brutta frattura, ha dovuto operarsi. Voglio raccontare di quell’«oltre» di cui non si conosce un granché realmente a meno che non ci si imbatta per questioni simili, per ricordarmi della forza e del coraggio, del dolore e delle lacrime, dell’impotenza e dell’ineluttabilità, della follia e della solitudine, della solidarietà e della fede: fiori straordinari che sbocciano in giardini che – per citare il grande Renato Zero –nessuno conosce veramente e che si attraversano e si vivono tutte le volte in cui si è obbligati per necessità, per destino o per caso. 

Non posso dire altro che bene dell’ospedale che ha accolto mio padre, e del reparto di Ortopedia nel quale è ricoverato.

L’unico termine che mi viene in mente è quello di famiglia, perché all’interno di un reparto ospedaliero si condivide ogni cosa, le storie e le emozioni, ma anche le ansie e le paure. In un reparto di ospedale, i degenti respirano tutti la stessa aria, si trasformano in contadini che coltivano – giorno dopo giorno – la speranza di uscire quanto prima e ritornare alle proprie vite e alle proprie abitudini.

«E vostro padre, Signò, com’è caduto?»

«E voi? Come vi siete fatta male?»

«E che ve lo dico a fare? Mi hanno investito! Sono tre mesi che sto qui ma mi sembrano anni!»

«Io in chistu letto nun ci voglio cchiu’ stare!»

«Signò, vedete un po’ se viene l’infermiera che mi fa una siringa per il dolore…»

Chi sta bene e in salute non si rende conto della sofferenza di chi è immobilizzato in un letto. Troppo spesso si parla velocemente e senza pensare, ci si lamenta di cose di modesta importanza senza rendersi conto della grande fortuna che si ha nello stare in piedi e nell’essere sani. Nel poter avere la libertà di andare dove si vuole e quando si vuole. Il Tempo qui non ascolta nessuno e gioca a rimpiattino con la Follia. 

 

Ho visto Dio

Per tutti i malati del reparto di Ortopedia al Vecchio Pellegrini di Napoli, nel cuore vivo e pulsante di Parthenope, il “fare una passeggiata” è il sogno più ambito. Il grande desiderio, quello per eccellenza, per intenderci. È in momenti come questi che ti soffermi a pensare alla logica concatenazione degli eventi, facendo caso a tanti particolari che svelano la struttura dell’intero edificio del destino e del fine ultimo dell’esistenza umana.

In questi giorni, da quando mio padre si è ricoverato, ho visto Dio più di quanto ne abbia visto in vita mia. Nei medici, negli infermieri, negli assistenti socio sanitari, nel personale addetto alle pulizie e in quanti danno una mano per dare sollievo ai malati. Ho visto Dio, e la straordinaria solidarietà tra tutti, malati e non malati e senza alcuna distinzione di razza, età, sesso, religione e censo.

Ho visto Dio nei sorrisi sdentati di anziani ancora lucidi e vigili, e ho visto Dio nelle corse degli infermieri, trascinando barelle dalle stanze alle sale operatorie, con flebo e medicamenti per dare sollievo a dolori atroci.

Ho visto Dio negli abbracci tra familiari, negli occhi vacui degli ospiti, nei fiori e nelle effigi sacre di santi e di madonne.  

Napoli è Napoli

«La speranza è l’ultima a morire» lo dice un vecchietto di 91 anni operato al femore che spera presto di tornare a casa sua. Anche se l’Ospedale Casa ti cura e ti assiste, non c’è cosa più bella del materasso della propria stanza da letto. Anche se a dirla tutta, e almeno per ciò che ho sperimentato personalmente, l’aspetto bello che rende pieni di colori questi spazi che accolgono prevalentemente il dolore delle persone, sta nel legame che si viene a creare tra il personale medico compresi “Quelli che aiutano” (da Ciro che porta caffè e cornetti e acqua lungo tutti i piani e i corridoi del nosocomio al giovanotto che offre servizio di rasatura) e i degenti con compagnia familiare al seguito.

Scommetto che negli ospedali delle altre città italiane non c’è tutto questo calore, qui da noi è tutto particolare e non fa differenza se sei entrato ieri o oggi, per gli addetti ai lavori e a tutti coloro che ruotano intorno a questo mondo, una volta entrato resti uno di loro, fai parte della “famiglia”.

E questa è una grande cosa, specialmente quando ti confronti con situazioni difficili come una malattia o un’operazione. Una parola gentile e la capacità di ascolto fanno la differenza.

Il vero coraggio sta nell’amare

Mio padre mi ha trasmesso molti insegnamenti, il più importante e grande di tutti è quello sulla forza dell’amore, vero motore che regge l’intero mondo. Lui dice che il vero coraggio sta nell’amare ed io sono d’accordo con lui. Tutto sommato per amore siamo disposti a fare cose che in situazioni diverse non faremmo. Quindi in sé, questa forza è davvero potente. Basta saperlo vedere e riconoscere.

Quando ti confronti con circostanze estreme e vedi la morte in faccia, non puoi fare altro che amare: la vita, i tuoi parenti, i tuoi figli, i tuoi amici, i tuoi passatempi e i tuoi sogni, le tue ambizioni  e le tue aspirazioni. Questo ti dà la forza per farti forza. E in questo risiede la matrice originaria di ogni forma e manifestazione di coraggio.

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